Don Rodolfo teologo e poeta
Massimo Lardi: Presentazione del libro Don Rodolfo Mengotti, teologo e poeta all'Università della Terza Età (Unitre) di Tirano il 06.11.2018.
Grazie per questa benevola introduzione e per l’invito a presentare il mio libro su don Rodolfo Mengotti. Per essere in linea con il tema di quest’anno ho cercato un’immagine che rispecchiasse fedelmente l’esistenza e la personalità di questo sacerdote. Un’immagine calzante è secondo me quella dello scriba sapiente creata da Ben Sira nel libro del Siracide che, tra i libri sapienziali, è il più ricco di insegnamenti pratici, detto anche Ecclesiastico per l’uso che ne faceva la Chiesa primitiva ai fini dell’istruzione morale dei catecumeni. Con il Siracide tanta parte degli scritti latini di don Rodolfo hanno in comune l’identificazione tra sapienza e legge di Dio, il chiaro intento pedagogico, l’obiettivo di risvegliare l’orgoglio di appartenere a una religione che ha avuto uomini e donne come i Santi (nel Siracide la galleria dei patriarchi, re e profeti), il pensiero che l’uomo nella vita trova ciò che sceglie, la fedeltà a Dio e alla Chiesa di Roma, come per Israele la fedeltà al Dio di Abramo e al Tempio di Gerusalemme. In comune ha anche il fatto che i vari capitoli raggruppano sentenze e aforismi indipendenti tra di loro, ma che illustrano un tema sotto vari aspetti, rendendo più efficace il suo insegnamento. Don Rodolfo simile dunque allo scriba sapiente del Siracide, che è una specie di autoritratto dell’autore. Il quale asserisce che
«La sapienza dello scriba viene dal tempo speso nell’ozio,
si diventa sapienti trascurando l’attività pratica». (preghiera degli artigiani: il lavoro)
Così egli «[…] consacra se stesso
a meditare la legge dell’Altissimo.
Ricerca la sapienza di tutti gli antichi
e si occupa delle profezie.
Conserva i detti degli uomini famosi
e penetra le complicazioni delle parabole.
Cerca il senso nascosto dei proverbi
Ed è perspicace negli enigmi delle parabole.
E più avanti continua:
Se il Signore grande lo vuole,
sarà riempito di spirito di intelligenza;
effonderà le parole della sua sapienza
e nella preghiera ringrazierà il Signore.
Don Rodolfo, nato nel 1709 e morto nel 1790, è infatti uno che ha consacrato se stesso a meditare la legge dell’Altissimo. Ovviamente come sacerdote, in virtù degli studi di teologia che ha compiuto al Collegio elvetico a Milano e che ha terminato nel 1733 celebrando in patria la prima messa il 28 febbraio. L’ha fatto dapprima come canonico. La cura delle anime in un paese paritetico come Poschiavo lo costringe a porsi continue domande sui fondamenti della fede e sulla validità dei dogmi. Approfondisce lo studio della Bibbia, dei Padri della Chiesa, dei Santi, dei maggiori teologi del suo tempo. Studia le opere dei riformatori. Si fa paladino dell’ortodossia della Chiesa di Roma. Il suo ideale è un solo ovile sotto un solo pastore.
Nel 1749 il prevosto don Francesco Mengotti, suo zio paterno, muore e don Rodolfo diventa prevosto benché la sua salute sia già malferma. Ma già nel 1758 la salute peggiora al punto che si vede costretto a dimissionare. E qui comincia il periodo più lungo di ozio forzato che egli – come lo scriba del Siracide – consacra interamente alla preghiera e alla meditazione della legge dell’Altissimo, alla ricerca della sapienza degli antichi, ecc. Accumula il miele della sapienza. Per renderlo più prezioso e appetibile e facile da memorizzare, lo elabora in versi, soprattutto in esametri e pentametri spesso impostati secondo la poetica del barocco – come dice bene Andrea Paganini – su giochi di parole e apparenti ambiguità semantiche, sul paradosso e sull’ossimoro, […] – insomma su tutte le figure stilistiche possibili.
Egli raccoglie i suoi versi latini in 17 fascicoletti che, arrivato all’età di 72 anni (1781) fortunatamente trascrive nel manoscritto che ci è pervenuto. Se non l’avesse fatto molto probabilmente tanti testi sarebbero andati perduti. Così invece i fascicoletti sono diventati i 17 capitoli del manoscritto delle poesie latine. Che cominciano con vari appelli al lettore: Eccone un esempio:
O lettore, sia questo il tuo impegno: meditare sulle cose eterne,
fuggire il male e compiere il bene;
essere veramente umile, piacere a Dio e soccorrere tutti;
conservare la fede ed essere la frusta dell’eresia;
saper soffrire e morire; volere tutto ciò che Dio vuole,
disprezzando il mondo e guardando al cielo.
Vivi come uno che è destinato a morire: sii forte, o lettore, e ti prego
di pregare l’Autore della salvezza per la salvezza dell’autore.
I primi tre capitoli sono dedicati alle preghiere a Dio, alla Beata Vergine e ai Santi. Si tratta di un centinaio di colonne (Su 360 in tutto), preghiere [di adorazione, eucaristiche, propiziatorie e impetratorie ispirate ai Salmi, e agli altri libri sapienziali, profetici e storici dell’A. T., ai Vangeli. Come Ben Sira nella galleria di personaggi gloriosi del Siracide (Giacobbe, Mosè, Aronne, Davide, ecc.) don Rodolfo cerca di risvegliare l’orgoglio di appartenere a una religione che ha avuto uomini e donne come i Santi. Li presenta in ordine di prossimità a Gesù, cominciando con i membri della Sacra famiglia per poi passare agli Apostoli, ai martiri, ai Padri della Chiesa, e ai patroni della casa Mengotti, che sono la Vergine del Buon Consiglio, San Giovanni Nepomuceno, San Carlo Borromeo, San Fedele da Sigmaringen e altri ancora.
Quando non si accontenta di parafrasare il pensiero di altri, don Rodolfo raggiunge esiti veramente poetici: Faccio un esempio con una preghiera a Maria ispirata a Sofronio (patriarca di Gerusalemme 7. secolo) che diceva: «Veramente la Vergine era il giardino delle delizie, nel quale sono disseminati tutti i tipi di fiori e tutti i profumi delle virtù» da questo semplice pensiero Mengotti sviluppa la seguente lode alla Vergine [36a]:
La Vergine è il dolce giardino di tutte le virtù:
è l’umile viola, il giglio virgineo;
è la rosa rossa di carità, il nardo dal soave profumo;
porta i mesti trofei della croce come la passiflora. (strumenti della Passione)
È costantemente rivolta a Dio come se seguisse il sole, ed è unita a Lui tanto nella speranza
e nella fede quanto con gli occhi, il cuore e la mente.
Chi non sarà indotto dal profumo di tutte queste virtù ad amare
l’Alma Vergine che trasse Dio dal Cielo?
Un capitolo di 32 colonne lo dedica ai sacri dogmi, il 4., un tema estremamente scottante in periodo di Controriforma, per il quale ha attinto soprattutto ai Padri, e ai vari Concili della Chiesa. In questo capitolo contesta i Riformatori e i filosofi atei del suo tempo, che chiama “spiriti forti” o anche “atomisti”. Nei loro confronti si dimostra severo come i profeti con Israele quando si ribellava a Dio.
Senza l’anima l’occhio non vede, l’udito non ode,
il naso non sente l’odore, il gusto il sapore,
il tatto non funziona. Perché, spirito audace, attribuisci agli atomi
questi effetti? Perché in realtà il misero atomo sei tu.
L’ultimo verso fornisce un ulteriore esempio di gioco di parole.
Un capitolo di 80 colonne, il più lungo, è dedicato alle norme del vivere bene tanto fisicamente che spiritualmente, vale a dire alla ricerca della felicità terrena e della salvezza eterna; è l’identificazione della sapienza con la legge di Dio. In altre parole la felicità dipende dalle proprie scelte.
Alla domanda: Chi è sapiente? don Rodolfo dà la seguente risposta [89a]:
È sapiente chi conosce le cause delle cose, rispetta i tempi,
domina le passioni e organizza le proprie azioni.
Il destino domina gli imbecilli: il sapiente è governato dal Cielo; (volontà di Dio)
non si fa dominare dalla sorte, ma è lui che ha in mano il proprio destino.
Nuota come il cigno nell’acqua cristallina e non viene sommerso dalle onde;
il sapiente non viene così mai sopraffatto dalle avversità.
Seguono tre capitoletti dedicati al tempo meteorologico, ai segni del cielo e ai mesi, 15 colonne in tutto. Anche la Storia Sacra dedica particolare attenzione a questi temi, che hanno sempre avuto un enorme influsso sulla vita dell’uomo per quanto concerne il benessere, la produzione di cibo, l’orientamento. Inoltre il cielo ha la sua particolare importanza come dimora di Dio. (Vedi l’arcobaleno e benedici chi l’ha fatto, / è molto bello nel suo splendore. Oppure: La bellezza del candore della neve meraviglia gli occhi / e quando essa fiocca, il cuore si estasia- Siracide). Intorno a questi temi si sono cristallizzati tanti detti e proverbi che profetizzano il tempo meteorologico e il raccolto che verrà in base a particolari indizi. Don Rodolfo ne ha raccolti parecchi, mettendo in dubbio quelli basati sulla fantasia per non dire sulla superstizione, come il seguente:
Vaticinio perpetuo per tutto e qualsiasi anno, tenendo conto del giorno in cui cade il primo di gennaio [113a]
Se di domenica
La primavera sarà umida, ma l’inverno caldo; d’altra parte l’autunno e l’estate saranno ventosi:
ci sarà un buon raccolto di messi, di miele, di lana e di vino,
ma saranno sterili gli orti e non renderanno le sementi,
se il primo giorno di gennaio cadrà di domenica.
Dà invece credito alle previsioni basate sull’osservazione della natura. Riporta, naturalmente in latino, una serie di detti ancora oggi in voga a Poschiavo:
Il vento che soffia in direzione di Bormio preannuncia la pioggia:
quello che soffia verso Malenco indica tempo sereno.
O giorno, sarai splendente o fosco, così com’è il tempo in Valuglia:
se sono tenebrose le cime del Varuna verrà la grandine.
Il giorno è bello se il Sassalbo è luminoso: se è fosco è nuvoloso:
se è coperto di una nube nera sarà piovoso.
In questo contesto ricorda una particolarità di Poschiavo: il giorno di S. Carlo Borromeo (4 novembre) e il 5 febbraio dal centro di Poschiavo si può assistere a tre albe e tre tramonti: infatti la mattina il sole sorge e tramonta nella sella di Trevisina, risorge dietro il Cornaccio (S. Romerio), tramonta dietro la Motta d’Ur per poi risorgere e tramontare nella sella successiva.
Il nono capitolo è intitolato Proverbi e per struttura e contenuti ricalca per certi versi il libro dei Proverbi dell’AT. Sviluppa in forma di poesia sentenze di tutti i tempi. Faccio un esempio con una sentenza di S. Paolo, dalla 2. Lettera ai Corinti 9,7 [103a]: «Dio ama chi dà con gioia».
Non contare i doni che hai elargito ai poveri:
li conta Dio nei cieli e li ricompensa.
Dona le tue cose finché sono tue, poiché dopo la morte non sono più tue:
Ciò che dai mentre vivi, è tuo quando morirai.
Non di rado inserisce anche esperienze personali, annotazioni diaristiche, come la seguene:
La vita di chi scrive [100a] LO SCRIBA
La mia vita è sempre lettura, riflessione, scrittura;
così fuggo l’ozio, imparo e nel contempo mi ricreo.
Queste sono le quattro ragioni per cui leggo così tanti libri:
per imparare, insegnare, per comporre versi ed evitare l’ozio.
La poesia procura un dolce conforto alle mie membra inferme,
e anche un dolce sollievo alla mia vecchiaia.
Il decimo capitolo (9 colonne) è intitolato Lodi e contiene testi interessanti poiché sono dedicati a personaggi sia del grande mondo, sia della sua cerchia e della sua famiglia, (epigrafi, imenei, epitaffi, motti, arguzie). Per cantare le qualità dei personaggi, egli prende spesso spunto dal significato dei nomi o dai simboli dello stemma di famiglia. Come nell’epitaffio che scrisse per il suo nipote acquisito, il Barone de Bassus, quando per la prima volta fu innalzato alla carica di podestà di Poschiavo (da notare che lo stemma dei Bassi , nobilitati in Germania con il nome di von Bassus, era un grande sole raggiante con sotto due stelle):
Per tutto il tempo che risplende lo specchio sfolgorante del sole
brilla del suo splendore quanto gli sta vicino.
Per tutto il tempo che rifulgi del nuovo splendore di supremo magistrato,
per la tua dignità, la nostra patria fiorisce serena.
Dal momento che la tua destra maneggia la lancia e la sinistra la bilancia,
che questa giudichi le cause, che quella punisca i colpevoli.
Fa’ la parte del cittadino e del padre, abbi cura di tutti,
non di te: così, o sommo magistrato, amministrerai bene la giustizia.
Ma più illuminante ancora è l’imeneo, il canto nuziale, composto per il terzo matrimonio della madre del barone de Bassus con il conte Giulio Cesare Martinengo da Barco. (Detto tra parentesi: In prime nozze Caterina aveva sposato il fratello di don Rodolfo podestà Bernardo, erede del palazzo a Poschiavo (da non confondere con lo zio Bernardo, proprietario dell’allora palazzo Mengotti a Tirano) e aveva avuto da lui due gemelli, uno morto in fasce e l’altro ancora in vita al momento del terzo matrimonio. Don Rodolfo stesso spiega la genesi del testo nell’introduzione:
Per le nozze del nobile conte veneto Giulio Cesare Martinengo da Barco con la nobile signora Maria Caterina de Margaritis grigionese. Epigramma che gioca sul nome dello sposo, e sul cognome e lo stemma della Vergine e sui gioielli, ossia le perle, di cui è composto il cognome e lo stemma della sposa, inoltre sui figli gemelli maschi della sposa nati dal matrimonio contratto in giovane età, e rispettivamente sulle nazioni degli sposi (12 giugno 1760) [138a]
La bellezza e il valore che la perla conferisce all’oro splendente,
li conferisce a Martinengo la donna che lo sposa.
Sicuro matrimonio, quello che un nesso indissolubile fortifica e congiunge!
Illustre matrimonio, quello che una fulgida unione abbellisce!
Se già un patto d’amicizia unisce i Veneti e i Reti,
chi separerà quelli che sono legati da un vincolo inscindibile?
Questa è l’età dell’oro: un’estate perennemente fertile,
mesi cesarei e giorni splendenti.
Il luglio e l’agosto si congiungono: il Leone e la Vergine si uniscono in matrimonio:
per questo godono i Gemelli: grazie al caldo ogni cosa verdeggia. (poesia cosmica)
Febo brilla nel Leone di Venezia,
Febo risplende in virtù della Vergine grigione (1760).
Seguono tre capitoletti dedicati agli ortaggi e alle erbe curative (11), alla frutta (12) e ai cibi (13) in quanto la nutrizione e la salute sono fondamentali per la felicità dell’uomo. In questi capitoli esalta il potere curativo delle erbe medicinali come la salvia, l’aglio e la maggiorana; la piacevolezza e la salubrità della frutta; la tripla funzione dei cibi (nutrizionale, curativa e voluttuaria); apprezza gli ortaggi, (non le patate e i funghi che allora erano ancora in gran parte rifiutati), loda la carne, ma anche la polpa dei pesci, dei molluschi e delle rane. Dedica un capitoletto ai fiori in cui non manca di rilevare il valore simbolico dei medesimi, la rosa ad esempio:.
La rosa (Mondo simbolico, o sia Vniuersità d’imprese scelte, spiegate, ed’ illustrate con sentenze, ed eruditioni sacre, e profane ecc. di Filippo Picinelli, Milano 1653)
Attira e ferisce; così come diletta, punge la rosa. Davvero
nessuno al mondo raccoglie rose senza spine.
Qui don Rodolfo esprime il concetto di bellezza, perfezione e piacere attraverso il simbolismo della rosa, inscindibile dalle spine che simboleggiano la precarietà della condizione umana.
Il capitolo 14, (20 colonne), risulta particolarmente interessante per le tante curiosità che vanno dalle formule giaculatorie per indicare le date, alle annotazioni diaristiche, ai fatti più importanti della storia contemporanea. Riguardano la sua vita, la storia della Prevostura di Poschiavo, la politica di Giuseppe II imperatore del Sacro Romano Impero, la politica di Luigi 16. re di Francia, la Rivoluzione francese. Proprio queste composizioni sono di un fervore caustico, analogo a quello dei libri profetici. Profetizza ad esempio la fine tragica dell’imperatore. Ci sono anche lamentazioni personali per il fatto di non poter pubblicare i suoi versi e di non avere lettori:
Cosa valgono i miei più di ottomila versi? La qualità
rende i versi degni di lode, non il numero.
Non ho lettori: cosa giova essere eloquente
grazie alla Musa? La mia Musa è forse abbandonata dai lettori?
Cosa mi giovano diecimila e più versi? È la qualità (10104)
che rende le poesie degne di lode, non il numero.
È in questo capitolo che si trovano annotazioni di fuoco concernenti il nipote acquisito Barone de Bassus, per cui si può dire che è diventato il suo antagonista in quanto fondatore di una tipografia che stampava libri messi all’indice, simpatizzante degli Illuministi, membro di una loggia massonica e cofondatore dell’Ordine degli Illuminati di Baviera.
Nel 1787 in merito a un tale che già da molti anni è un famoso scialacquatore delle proprietà domestiche [160a]
Tutto... compera, così succederà che dovrà vendere tutto:
vende anche ciò che compera, perde anche ciò che ha.
Ha già venduto molto, ora colà gli viene tolto tutto,
ha moltissimi debiti; così la casa è quasi in rovina.
Poco ci manca che da solo distrugga i cospicui beni di quattro casati,
e da solo disperda, da prodigo qual è, le ricchezze onestamente guadagnate (Bas., Marg., Mas., Men.).
Del medesimo scialacquatore socio (come si racconta) della setta degli Illuminati
Si racconta che è socio dell’Ordine degli Illuminati:
un cieco guidato da un cieco cade senz’altro nella fossa.
Nel 1787 infatti al Barone vengono confiscati tutti i beni in Germania per il suo appoggio alla Società segreta degli illuminati di Baviera, accusata di alto tradimento. Il Barone corre un brutto momento, ma con la sua diplomazia riuscirà a rientrare in possesso di quanto gli era stato confiscato.
Nel capitolo 15 don Rodolfo raccoglie le scritte di casa Mengotti, cioè testi in latino e in italiano che, per diletto e istruzione degli inquilini, dei visitatori e dei domestici, egli ha composto e fatto scrivere su varie suppellettili e soprattutto sui muri e sulle pareti del gazebo e del palazzo Mengotti. Perché non si disperdano e per averli a portata di mano in caso di bisogno, come scrive nell’introduzione, li ha raccolti nel manoscritto delle Poesie latine.
Questo capitolo è tanto più prezioso in quanto contiene quasi tutte le poesie italiane a noi pervenute e supplisce, anche se solo in minima parte, alla perdita del manoscritto delle poesie nella lingua di Dante, di cui parla ripetutamente in questo manoscritto. Qui ho riportato solo i testi in latino. Sulle poesie italiane ritornerò brevemente in seguito. Qui mi limito a citare una delle spiegazioni riguardanti lo stemma dei Mengotti, diviso in tre fasce: in basso i campi, a metà il leone con la lancia, in alto la croce con quattro stelle:
Sotto lo stemma dei Mengotti nella casetta del giardino
C’è tutto ciò che serve a chi lotta: distingui bene il leone,
la lancia, le stelle, i campi e la croce.
Danno aiuto la croce, agiatezza i campi, coraggio il fulgido leone,
la lancia colpisce i nemici, le stelle confortano con la luce.
Per cui, se cerchi il trionfo e la gloria,
consulta tutto ciò che presenta lo stemma, e sarai vittorioso.
Il 16. capitolo di 6 colonne, è dedicato al diritto civile e al diritto canonico. Don Rodolfo mette in versi numerose norme giuridiche di ambo i diritti e, come avverte lui stesso, le riporta «alla rinfusa sia per quanto riguarda la materia che la metrica». Egli attinge la sua materia a varie Decretali, cioè lettere firmate dal Papa, contenenti disposizioni giuridiche riguardanti un caso singolo alle quali andava riconosciuto un valore generale. Don Rodolfo considera complementari i due diritti. Asserisce testualmente che «le leggi senza i libri sacri valgono poco; i libri sacri senza le leggi, niente». Tra le norme dettate dal diritto civile predilige quelle che sono entrate nell’uso comune sotto forma di sentenze proverbiali, come audiatur et altera pars (si ascolti anche l’altra parte) [169b].
Emette una sentenza ingiusta, anche se giudicasse il giusto,
chi giudica dopo aver ascoltato una sola parte e non l’altra.
L’ultimo capitolo 17, 16 colonne, è un vero e proprio catechismo morale, una raccolta di regole ad uso dei fedeli e in particolare dei sacerdoti, raggruppate intorno ad alcuni temi fondamentali: la giustizia e l’onestà, i sacramenti, le indulgenze, i comandamenti e i precetti della Chiesa, le virtù e i vizi capitali, i peccati e le occasioni di peccare. Esalta le virtù, quelle teologali come quelle cardinali. Sferza tutti i vizi, specialmente quelli contro l’amore del prossimo. In simmetria con l’appello iniziale al lettore, in questo capitolo il Semipoeta si congeda con un breve testamento spirituale. L’ha preparato a 70 anni, età in cui secondo il detto popolare si ridiventa bambini; in esso ribadisce i concetti fondamentali del proprio magistero.
Al lettore [179a]
Se secondo il tuo palato molte cose sono insipide e poco
gustose, tieni ciò che vuoi e rendi il resto al cuoco.
Dirai che ridivento bambino poiché ho settant’anni;
ridi pure mentre vagisco: non ci soffro.
Mentre fuggivo l’ozio, se vuoi approfittarne, ti ho preparato un po’ di svago
con vari argomenti; approfittane, vivi in buona salute.
Se qualcosa di buono ------------------------------------------------- ci trovi, è indubbiamente di Dio:
ma se trovi qualcosa di male ------------ allora è chiaro che è mio.
Come lavoro di scriba si può considerare anche un secondo manoscritto in prosa latina che ci è pervenuto, un’opera polemica, un miscellaneo di 80 pagine (il ms B) sulle verità cattoliche e le falsità acattoliche. L’avrebbe pubblicato volentieri nel Calendario della diocesi di Como, ma il metropolita Pozzobonelli di Milano nega l’imprimatur argomentando che l’opera possa rinfocolare le ostilità confessionali e scatenare nuove persecuzioni. Un’opera interessante per conoscere il pensiero di don Rodolfo. Il manoscritto mi è servito per completare la sua biografia, in quanto contiene lettere scambiate con il Padre Alessio da Bormio, custode del santuario della Madonna di Tirano, e una missiva della Curia di Como.
Purtroppo invece di lui non ci sono pervenute le prediche, vari trattati di storia e, come già detto, la raccolta di poesie italiane. Speriamo sempre ancora che l’opera sia rintracciabile, perché le poche poesie italiane conservate nel capitolo 15, Scritte di casa, in particolare una decina di sonetti enigmistici, sono particolarmente originali e di ottima qualità. Ecco un esempio: (La parola da indovinare è l’ECO; lo dico perché al posto di concentrarvi sulla parola da indovinare possiate apprezzare la poeticità del testo:
Vuoi saper ch’io mi sia? Ninfa non sono,
non nume, o spirto, o larva, o fera, o mostro;
alma e senso non ho, ma in cavo chiostro
romito prigionier ho voce e suono.
Anzi, chi che mi sia, non picciol dono
aver dalla natura in me dimostro;
formo il gracchiar de’ corvi, e non ho rostro;
lingua e fauci non tengo, e pur ragiono.
Fischio con l’aquilon, tuono con l’etra,
rido, canto, sospiro e piango teco;
pulso tamburo e suono tromba e cetra.
Parlo; e se sentirmi entro il mio speco
tu vuoi, fingi parlare a questa pietra;
e di’: Pazza sei tu? Tu, dirò teco.
Risoluzione in lettera oscura: y rpub
Alla fine del sonetto c’è la risoluzione dell’enigma in lettera oscura, ciò significa in codice, che consiste nell’utilizzare le lettere della seconda metà dell’alfabero per quelle della prima metà e viceversa: “a” eguale a “n”, “b” eguale a “o”, e così continua: c: p / d: q / e: r / f: s / g: t / h: u + v / i: x / l: y + ii / m: z.
Vorrei mettere in evidenza che anche questo interesse per gli enigmi è in sintonia con l’immagine dello scriba, con la differenza tuttavia che don Rodolfo si dedica agli enigmi più che altro a scopo ricreativo.
Fin qui dunque l’opera dello “scriba” don Rodolfo; la presento nell’antologia che è divisa in tre sezioni: La prima contiene tutte le poesie italiane che si trovano sparse nel manoscritto delle poesie latine. La seconda contiene circa un settimo delle sue poesie latine con traduzione italiana a fronte. La terza contiene alcune pagine del manoscritto B, il riassunto delle sue verità cattoliche e falsità acattoliche nell’originale latino e con la traduzione a fronte.
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Mi resta ora da dire due parole sulla prima parte, la Biografia che ho ricostruito sulla base dei suoi scritti e delle sue testimonianze. Non sta a me dare un giudizio sul mio lavoro. Mi limiterò a citare il giudizio di terzi.
Il nostro collega Ennio Galanga scrive in un lungo e apprezzato saggio:
«Man mano che il volume si dipana e il personaggio si completa, si conferma che il biografo sa intrecciare nel testo (dal latino textus: testo) le diverse competenze di storico, narratore, critico letterario, (ottimo) traduttore. Ne esce perciò una confezione pregiata, poiché il volume assume, senza che mai s’avverta la dissonanza d’una qualche tensione strutturale, la veste di saggio storico e culturale, di documentazione letteraria e teologica, di acuta esegesi poetica, di vivace affresco della Poschiavo settecentesca con cenni sul dibattito teologico tra cattolici e riformati».
Giovanni Menestrina mette in rilievo un particolare aspetto della biografia e precisamente il rapporto che don Rodolfo ha avuto con il santuario della Madonna di Tirano, che a queste latitudini è una realtà molto sentita. Egli scrive:
«Nella prima parte della sua ultima fatica letteraria dedicata alle opere in lingua italiana e latina di Francesco Rodolfo Mengotti (23 ottobre 1709-10 gennaio 1790) rimaste inedite nei due manoscritti (A e B) conservati nell’Archivio parrocchiale di Poschiavo, dopo aver introdotto i documenti da lui tradotti, Massimo Lardi traccia un’efficace biografia del loro autore. Per farlo, utilizza ancora una volta il genere letterario del romanzo storico, già ampiamente collaudato con il Barone de Bassus, ma anche – in discesa di tempo – con Acque Albule e Dal Bernina al Naviglio. Quello di don Rodolfo è quindi a tutti gli effetti il quarto romanzo di Massimo: oltre che una biografia, è una ricostruzione storica della Poschiavo settecentesca. A tratti, sembra di ripercorrerne le vie, di incontrarne gli abitanti: i parenti, gli amici, i nipoti, gli ecclesiastici, la gente comune, ecc.
[…]
«Si fanno particolarmente apprezzare i dialoghi con i nipoti e i pronipoti in visita allo zio, gli incontri con il cappuccino Alessio da Bormio e i passi che hanno come interlocutore il Barone de Bassus. Ma se devo individuare le pagine che fanno meglio emergere la sua tecnica narrativa, non esito a scegliere quelle dedicate al Santuario della Madonna di Tirano – e qui intendo riferirmi non tanto ai testi poetici, quanto ai passi dedicati alla vicenda della processione al Santuario prima abolita e poi reintrodotta nel 1748, ma anche alla solenne celebrazione del 29 settembre 1766, giorno di S. Michele e dell’apparizione della Madonna di Tirano. La ricostruzione storica è perfetta, al pari dell’analisi sociologica dei comportamenti che hanno portato prima all’abolizione e poi al successo dell’avvenimento. In particolare, Massimo dà l’impressione di essere uno dei partecipanti alla rinnovata processione: “presta i suoi occhi” ai lettori che così riescono a “vedere” – e comprendere – i veri motivi di tanta devozione».
[…]
«Meditando su queste pagine, la memoria è andata all’indimenticabile descrizione manzoniana della visita pastorale del cardinal Federigo, per la quale tanta brava gente era accorsa dalle campagne e dai borghi vicini, ma soprattutto al Libro quarto del Trionfo della morte (1894) di Gabriele d’Annunzio, che propone un’ampia, oserei dire ipertrofica descrizione del pellegrinaggio annuale (dal 9 all’11 luglio) al santuario abruzzese di Santa Maria dei Miracoli di Casalbordino, di cui diamo qualche stralcio».
Per ragioni di tempo salto i brani citati, ma vi leggo con piacere la conclusione alla quale arriva Menestrina:
«I protagonisti del romanzo dannunziano sono Giorgio Aurispa – di fatto un alias dell’autore – e la sua fidanzata Ippolita Sanzio. Giorgio si confronta con una realtà locale «cenciosa» piuttosto che umile alla ricerca della propria “superiorità”: senza mezzi toni, il grottesco, l’orribile, il macabro sono la “cifra” narrativa di tutto il romanzo e, in particolare, del pellegrinaggio; si afferma così un clima tardo-romantico che catalizza la crisi dei protagonisti, i quali – raggiunto appunto l’acme della loro parabola – sono pronti a precipitare nei gorghi della morte».
«Se dopo queste divagazioni si ritorna alla biografia di Rodolfo Mengotti, non si può che apprezzare una scrittura che “prosciuga” il racconto, riducendolo quasi al minimo. L’autore ha l’obiettivo di trasferire chi legge all’interno delle vicende legate al culto del Santuario valtellinese: le descrive per poter indurre un’interpretazione storica degli avvenimenti; il non-detto stimola infatti l’immaginazione del lettore, costringendolo a sospendere la lettura per riandare con la mente alle sue frequentazioni di questo edificio sacro (se lo conosce direttamente), oppure al proprio vissuto in cerca di situazioni analoghe che gli permettano di immedesimarsi negli avvenimenti. Guidato da Massimo egli ritrova quegli aspetti di dignità, compostezza, venerazione che gli permettano di compartecipare alla solenne funzione religiosa».
Non intendo aggiungere altre citazioni, ma, prima di terminare concedetemi di tornare un attimo al Siracide e di concludere con una breve carrellata di immagini dei luoghi e dei personaggi di questo libro, onde tener fede al programma di quest’anno (cioè parola e immagine).
Ci tengo a rilevare un ulteriore parallelismo tra il Siracide e le opere di don Rodolfo: Il testo ebraico del Siracide, scritto all’inizio del secondo secolo avanti Cristo andò perduto, ma per fortuna, un nipote dell’autore aveva tradotto il libro del nonno in greco alla fine dello stesso secolo ed è questa versione che si è conservata. E nella lode dello scriba si dice anche:
«I popoli parleranno della sua sapienza
e l’assemblea canterà la sua lode.
Se vive a lungo lascerà, più che mille, un nome,
e se muore, quanto ha fatto è sufficiente».
E infatti in vita don Rodolfo, dopo l’abdicazione, è considerato la coscienza morale della sua prepositura, viene consultato come un oracolo a ogni nomina dei suoi 7 successori, garantisce la continuità dell’opera moralizzatrice dei suoi due zii che l’hanno preceduto nella prevostura. E ora brevemente le immagini (pubblicate nel libro).