«Cenobio», N. 4, Anno LX, ottobre-dicembre 2011, p. 13-14
Il Barone de Bassus, recensione
Giorgio Luzzi
L’antica amicizia con Massimo Lardi risale agli anni più maturi della mia, e naturalmente reciproca, coscienza frontaliera: la coscienza, cioè, di una unità di linguaggi che fosse in grado, almeno in parte e provvisoriamente, di far dimenticare quel “gap” di civiltà e di evoluzione socioeconomica e anche culturale che incontestabilmente penalizza un po’ noi dall’altra parte della sbarra. Il lavoro di scrittore di prose narrative, vera vocazione anche se a lungo latente dell’intellettuale valposchiavino, si è naturalmente intensificato dopo che il suo mandato di docente a Coira è venuto meno; si tratta di un percorso decisamente tipico e per nulla insolito, che però, nel caso dell’amico, ha assunto proporzioni progressivamente crescenti per impegno e per tematiche. Ricordo quell’avvincente racconto lungo, comparso alcuni anni fa, che in verità accorciava un po’ le distanze storiche e sociali tra i due mondi scissi dalla sbarra: come, cioè, miseria e avventura facessero del contrabbando un modulo sotterraneo ma non del tutto clandestino in grado di incrinare anche le coscienze morali di uno strato giovanile messo alla prova dalla fertilità seduttiva del denaro facile; erano le parentele di costume che si davano la mano in una clandestinità comune il cui collante sembrava essere, in via comunicativa, il puro e semplice idioma popolare delle due valli. Ma già allora la forte pretesa etico-civile era pronta, nella prosa sospesa e a tratti drammatica ma anche talora gustosamente ironica di Massimo, a offrire delle salutari ipotesi redentive, secondo un modello della narrativa moderna che ruota attorno al ruolo dell’eroe positivo. Ora, ancora recente e quanto mai attuale, comparso per la rinnovata e vitale collana de “L’ora d’oro”, il lavoro più imponente dello scrittore poschiavino: quel misto, manzonianamente parlando, di storia e invenzione che alla responsabilità verso la storia affida i succhi gravosi, lenti, ardui e semisepolti della ricerca d’archivio. Sono i preliminari ancora bui, ma che suppongo esaltanti come ogni opera che avvenga nelle viscere di ciò che sta per essere dissepolto, che vanno ad attingere entro i campi della storiografia, o microstoria come credo sarebbe meglio dire. Non sto a ripetere ciò che in questi ormai due anni di vita de “Il barone de Bassus” è stato presumibilmente detto e scritto ampiamente, e cioè il merito di una acuta e tenace propensione per la vita documentaria del passato; in realtà l’intreccio di invenzione e di storiografia mi sembra riuscito con ammirevole equilibrio. Un po’ tutto, infatti, risulta annodato attorno al primato della politica e di una oggettiva e adulta escursione all’interno del senso e della genesi del potere stesso. Vi si profila appunto la natura apologetica, accortamente costruita, della fisionomia del protagonista. La stessa descrizione della amicizia con il Pilati, preparata dal narratore con la consapevolezza di un colpo di scena fortemente attutito dalla discrezione, rivela nella prosa di Lardi le qualità di attento ed esperto costruttore di ambienti e di situazioni, di banchetti come di assemblee, di conversari mondani come di prese di parola decisionali. Grazie alla eccezionale lungimiranza e al coraggio personale del protagonista, il verbo illuminista penetra nel mondo chiuso, ancorché saldamente amministrato, di Poschiavo, emancipando il perlaceo capoluogo della valle a laboratorio anche enciclopedico e radiale del nuovo metodo conoscitivo dei Lumi. Il problema dei rapporti tra questo nuovo vento d’Europa e la forte piattaforma religiosa – a propria volta sdoppiata tra cattolici e riformati – della comunità chiusa tra i monti, mi pare uno dei temi chiave del romanzo; ma è anche la ribalta decisiva sulla quale si proiettano le qualità intellettuali e umane del protagonista, della sua esistenza esemplare, a mezzo tra la figura olimpica e tradizionale del buono e saggio padre di famiglia e la figura di “homo novus” politicamente addestrato, acuminato mediatore, lettore infaticabile e promotore di quella vera e propria locomotiva sociale che fu la fondazione di una tipografia insediata tra i monti. La tipografia prospera tuttora, e chissà se le abili e maestose messe in scena romanzesche, la rappresentazione di una piccola Polis quasi centro ideale di un’intera Europa in fase di cambiamento, chissà, dicevo, che tanta infaticabilità d’archivio, avidità e appagamenti da microstorico, non siano consegnati a Massimo nei suoi giovani anni proprio dalla lunare enclave di Poschiavo e dalla limpida realtà di piccola capitale e guida che ne è sempre promanata.
Torino, ottobre 2011